Il polline è lo strumento attraverso cui le piante attuano il processo di riproduzione. È prodotto dall’androceo, ovvero la componente maschile del fiore, da cui si libererà per poter raggiungere il gineceo, ovvero la struttura femminile del fiore. Comunemente diciamo che il polline è prodotto dai fiori maschili, ma in realtà la relazione è proprio opposta, ovvero riconosciamo come attribuiti al sesso maschile le componenti del fiore che producono il polline!
Il fiore maschile è infatti costituito dal filamento, una struttura più o meno allungata, che porta all’estremità le antere, le strutture all’interno delle quali si formano i granuli di polline che a maturità saranno poi ceduti o liberati. Come sono fatte, come si presentano queste strutture e come si attua la liberazione del polline sono una delle manifestazioni di variabilità, creatività e razionalità che solo la biodiversità riesce a manifestare!
Sembra proprio di trovarsi di fronte ad un altro controsenso, se il polline è prodotto dai fiori, perché nei punti vendita troviamo confezioni di “polline di api” e consideriamo il polline stesso un prodotto dell’alveare?
Nessun errore, si tratta solo di individuare le giuste definizioni. Il polline è effettivamente lo strumento per la riproduzione delle piante attraverso i fiori, quello che interessa studiosi e appassionati di biologia e botanica, e che tutti incontriamo, ovunque ed inconsapevolmente perché troppo piccolo per essere visto. In realtà alcune persone sono più sensibili e riescono a percepire alcuni tipi di polline anche da pochi granelli … poveri loro, sono quelli che chiamiamo allergici!
Quello che invece consumiamo è lo stesso polline ma quasi sempre ottenuto dal certosino lavoro di raccolta operato dalle api. Sono le api bottinatrici, un gruppo delle api operaie, spesso quelle più anziane, intorno alla veneranda età di tre settimane, che provvedono alla raccolta dei prodotti per il sostentamento della colonia, quali nettare, polline, acqua, propoli.
Queste api presentano delle caratteristiche anatomiche e morfologiche che permettono un efficiente svolgimento delle funzioni come, per esempio, una lunga proboscide per una più efficiente raccolta di nettare o delle “sacche” (si chiamano corbiculae) sulle zampe posteriori che al pari dei cestini sulle biciclette, servono per un efficiente trasporto del polline.
Visitando i fiori le api raccolgono il polline direttamente ma una gran parte rimane adeso al loro corpo, spesso involontariamente. Con le zampe l’ape recupera i granuli di polline e li aggrega formando dei piccoli granuli, noti come pani di polline, che sono accumulati nelle tasche sulle zampe posteriori fino al rientro all’alveare.
La modalità con cui avviene questa raccolta è di per sé affascinante per una capacità innata, e forse inconsapevole dell’ape. Se conosciamo in modo più o meno diretto la varietà di forme e colori delle piante allora ci possiamo immaginare come l’evoluzione si sia sbizzarrita proiettando la stessa variabilità nei granuli, per forma, articolazione, dimensioni e colori.
Eppure, l’ape, che non ha il microscopio e non ha studiato la botanica, è in grado di decodificare questa diversità e discriminare tra le piante raccogliendo in modo selettivo polline solo dalla stessa specie botanica o tutt’al più da specie affini, magari appartenenti alla stessa famiglia. Basta guardare un qualsiasi vasetto commerciale di polline, spesso definito anche come polline millefiori. Risulta costituito da una polvere grossolana e disomogenea costituita da grani, che sono gli aggregati di polline che le api hanno trasportato fino all’alveare, che si presentano variabili per dimensione e soprattutto colore, riuscendo a coprire una ampia scala cromatica che va dal giallo pallido fino al marrone scuro.
Avendo la pazienza di guardare più attentamente, ci si accorge che l’effetto cromatico macroscopico è diverso da quello microscopico; infatti, ogni singolo grano risulta di un colore caratteristico ma omogeneo. Da qui riusciamo quindi ad immaginare il lavoro delle api che hanno aggregato ogni singolo granulo viaggiando di fiore in fiore ma con una accurata selettività della specie botanica, per cui ogni singolo aggregato è costituito da polline proveniente da una singola specie o da poche specie affini.
E lo sa bene il palinologo, lo studioso del polline, che dall’analisi del colore comincia le sue ricerche per poter identificare l’apporto percentuale di ogni specie botanica che è stata bottinata. Immaginato così sembra un asettico lavoro di identificazione e conta, ma serve per dare una idea di come un cucchiaio di polline possa diventare indicatore, quasi una istantanea o una cartolina della biodiversità presente nell’ambiente dove è stato prodotto.
È quindi ragionevole chiamarlo polline d’api, in fondo lo hanno raccolto e preparato loro, immaginando il vantaggio che potrebbe trarre l’intero alveare dal potersi alimentare con quella ricca fonte di proteine, vitamine e sali. Apparentemente un prodotto anche a basso costo, in quanto prodotto dalle piante, ma che richiede un lavoro immane.
In ogni viaggio al di fuori dell’alveare un’ape visita anche 100 fiori recuperando circa 15 mg di polline che per 10-15 viaggi al giorno corrispondono a circa 200 mg di polline. Le variabili sono innumerevoli ma in condizioni ottimali una colonia di api permette la raccolta di oltre 30 kg di polline all’anno. E qui entra in gioco l’astuzia dell’apicoltore che modificando la via di ingresso all’alveare, impone alle api bottinatrici un passaggio “a piedi” in cui l’ape si troverà quasi sottosopra, con l’effetto della perdita parziale del bottino che per il volo di rientro era stato stivato nelle tasche delle zampe posteriori.
Le fasi successive prevedono quindi la raccolta e, se necessario, un semplice processo di leggera disidratazione, per ridurre il contenuto di acqua e rendere il prodotto conservabile e quindi commercializzabile come polline millefiori. Con questa definizione si identifica proprio un prodotto complesso in cui non è possibile riscontrare una netta dominanza di polline di una singola specie.
Ma a pensarci bene, considerare il polline come un prodotto, ancorché primario in quanto non soggetto a successive trasformazioni, risulta riduttivo perché ogni singolo lotto è diverso da tutti gli altri perché diversa sarà la vegetazione presente sia in contesti geografici diversi che in funzione delle variazioni stagionali.
Non è quindi sbagliato immaginare che in un cucchiaio di polline ci sia la rappresentatività organolettica di un territorio, proprio come una fotografia della vegetazione in riproduzione nella stagione di bottinatura. Certo, per gli amanti dei gialli sarebbe una delusione perché un approccio palinologico sui vestiti dell’indagato potrebbe rapidamente dare una conferma o una smentita di dove si trovava, facendo immediatamente confermare o smentire l’alibi!
Proviamo a guardare la fotografia, è solo un’ape su una pianta, ma rappresenta qualcosa di inusuale. Per cominciare l’ape non è su un “classico” fiore, e non potrebbe esserlo in quanto la pianta in foto è una canapa da fibra, una specie che avendo selezionato il vento come vettore dell’impollinazione, non ha avuto bisogno di costruire le strutture vessillari, come ad esempio i petali e quindi la corolla che abitualmente ci permettono di identificare il fiore. Potrebbe essere un’ape che si è sbagliata? O forse è più probabile che ci sbagliamo noi, quando diciamo che l’ape fa l’impollinazione. L’impollinazione è un problema esclusivamente della pianta, non dell’ape!
È infatti la pianta opera l’impollinazione sfruttando il lavoro, la capacità di spostamento e la capacità di apprendimento dell’inconsapevole ape, che certamente non conosce l’impollinazione. Ecco quindi che si ripropone la discriminazione tra le nostre definizioni di polline. Se l’ape della foto fosse quella che la pianta utilizzerà come vettore per trasportare i granuli pollinici su fiori di altre piante della stessa specie, allora si, c’è qualcosa da rivedere perché la specie in questione ha una impollinazione affidata al vento (anemofila).
Se invece riconosciamo questa come ape bottinatrice, quella che deve approvvigionare polline per garantire un apporto proteico agli inquilini dello sciame, allora è tutto razionale ed è facile capire che se disponibile il polline sui fiori maschili, va bene comunque, anche se non ci sono quelle strutture vessillari a rendere il fiore bello, visibile e riconoscibile. Siamo arrivati così ad un “terzo” polline che è quello che si ricava da graminacee per raccolta dei fiori maschili da cui a maturità si ricava il polline. Si tratta di un prodotto di interesse industriale che utilizza piante che per attuare l’impollinazione anemofila producono maggiori quantitativi di granuli e che è caratterizzato da una limitatissima variabilità in quanto ottenuto da coltivazioni di una singola specie.
Il polline è un prodotto naturale affascinante per moltissimi aspetti che spaziano dal ruolo chiave nell’interpretazione dell’evoluzione, per la salute ed il funzionamento dell’ecosistema e, non ultimo, per i numerosi risvolti salutari, per la cura della bellezza e per il benessere, ambito nel quale è caratterizzato da una forte unicità.
Luigi Menghini, Professore ordinario di Botanica farmaceutica e referente Orto botanico Giardino dei Semplici, Dipartimento di Farmacia, Università Gabriele d’Annunzio.